I sogni non bastano. I sogni sono solo parte del funzionamento delle cose. Quando fantastichiamo, spaziamo con la mente nelle pieghe della nostra immaginazione: i più fortunati riescono a creare scenari ricchi di dettagli e lontani dalla realtà che li circonda, mentre la maggior parte di noi riproduce essenzialmente la realtà conosciuta, magari edulcorandone le sfumature più fastidiose. Ma non andiamo più in là, anche se sappiamo che fantasticando e sognando non corriamo alcun rischio, non spendiamo nulla in termini economici, di energie e risorse personali e della comunità. Perché, allora, non osiamo spingerci un po’ più in là? Perché abbiamo paura.
Se, per esempio, volessi cambiare lavoro, potrei inseguire una fantasia che mi porti lontano dalla mia realtà: aprire un chiosco di piadine in Papua Nuova Guinea, partire con una ONG per aiutare bambini o malati in una zona del mondo fortemente sofferente, viaggiare per il mondo come commerciante di caffè o tessuti. Sono immagini esotiche e affascinanti, ma poco realistiche. Faticherei molto a pensarmi lontano dalla mia casa, dagli amici, magari senza connessione a internet o saponette profumate con cui fare la doccia calda al mio risveglio. Mi farebbe paura.
Ma di cosa abbiamo paura, quindi? Di lasciare andare la realtà conosciuta, sebbene talvolta spiacevole, repressiva, o monotona e senza stimoli? Ma cosa rischiamo, davvero? Credo che il vero ostacolo che si frappone fra noi e i nostri sogni, è la paura che si possano realizzare, di rimanere poi senza ancore, aggrappati come siamo alla tetta della mamma a immobilizzare il presente, con la certezza rassicurante di potere continuare, se non altro, a lamentarci della nostra normale, conosciuta, familiare esperienza. Questa attrazione magnetica per la comfort zone, però, ci impedisce di crescere e, quindi, cambiare.
Lasciare il conosciuto, infatti, richiede l’elaborazione di un lutto, della perdita dei punti di riferimento, della mappa per andare avanti, di quello che noi pensiamo di noi stessi, cioè di essere programmati per “seguire una strada”. Preferiamo mantenere il lavoro che troviamo alienante, privo degli stimoli che ci auguravamo all’inizio del nostro percorso, quando ancora potevamo osare comunicare a noi stessi e agli altri che volevamo avere un’occupazione a contatto con la nostra natura (nel mio caso, aiutando le altre persone) per poi vederci scivolati in una trappola di orari che lasciano poco tempo vitale per i nostri affetti e per seguire i nostri reali interessi, che sono poi quelli che ci fanno sentire vivi. Che ci fanno sentire che ci sia un senso.
La paura diventa terrore se pensiamo di non avere denaro a sufficienza per sopravvivere o per mantenere il nostro attuale tenore di vita. E lì arriva il pretesto principe della nostra staticità, la scusa maestra. Nei rapporti personali talvolta decidiamo di rimandare la separazione da partner di cui non siamo più innamorati per l’orribile pensiero di rimanere soli, con la paura di non sapere cosa fare “di” noi stessi, “con” noi stessi. Guardiamo il futuro con speranza e il passato con nostalgia, sebbene sappiamo che momento per momento stiamo vivendo il presente, qui e ora. Incapaci, però, di starci, in quel presente, con “presenza”.
Sappiamo bene che il modo migliore per vivere il presente è accettare il fatto che sia irrimediabilmente fuggevole e che non sappiamo nulla di quanto avremo ancora a nostra disposizione in termini di tempo e di possibilità fisiche. Non abbiamo il controllo del nostro futuro, né di quello degli altri. Possiamo solo ascoltarci e cercare di osservare, con la consapevolezza della nostra impermanenza, cosa è meglio per noi.
Cerchiamo di riconoscere quali sono le scatole culturali dentro alle quali riponiamo le nostre idee, e cosa rimane della nostra essenza. Siamo noi che viviamo, o cerchiamo affannosamente di seguire le aspettative che crediamo che gli altri abbiano nei nostri confronti? E’ la morale (religiosa e non) che guida le nostre idee? Quali sono le nostre emozioni?
Abbandoniamo il giudizio. E’ di fondamentale importanza accettare quello che scopriamo, perché è autentico, vero: siamo noi quello che portiamo dentro! Il resto è facciata, immagine, crosta di cultura, morale e aspettative sociali. Un caos pressante nel quale noi scompariamo e non sappiamo più cosa sentiamo, cosa vogliamo e pensiamo. Lasciamo che le nostre relazioni, consolidate su vecchi stereotipi di facciata, facciano da cornice della nostra identità, una cornice che è parte integrante dell’opera stessa. Il frame della nostra riconoscibilità sociale, del nostro valore. Se sono madre e moglie, lavoratrice o casalinga, sono etichettata, riconosciuta, di senso. Rassicurante.
Se sono solo Francesca oltre l’età, il ruolo sociale, il lavoro, se sono solo me stessa, spogliata di tutto, io chi sono? Tutto? Nulla? Qual è la mia vera identità oggi, adesso, chi è quella là che mi guarda dallo specchio ogni mattina? E come mi vedono gli altri, in che ruolo vogliono mettermi? Ci costruiamo una strada con una meta e viaggiamo su binari di una corsa prestabilita da noi; dimentichiamo di chiederci dove stiamo andando, ma non manchiamo mai di far manutenzione ai binari.
Forse qualcuno di noi ha voluto, consapevolmente o meno, soddisfare le aspettative dei genitori, diventando pilota di aerei o medico chirurgo: e se la sua felicità venisse dal coltivare le rose o allevare pesci tropicali, quanto avrà dovuto faticare, snaturandosi, per ottenere un titolo e l’agognato lavoro! Nel frattempo, per sopravvivere alla frustrazione, si è attivato il processo di censura dei dubbi che inevitabilmente si presentano. Avrà affinato a tal punto la tecnica della loro repressione, da non farli nemmeno più emergere, abortiti alla nascita. E la passione nascosta per le rose o i pesci tropicali si è ridotta a flebile voce, silenziosa e elegante come richiede la buona educazione.
Solo che abbiamo una vita sola e, se non la viviamo pienamente, perdiamo una bellissima occasione. Certamente corriamo il rischio di essere giudicati folli, incoerenti: ma quando facciamo qualcosa in cui davvero crediamo, la luce nei nostri occhi parla per noi, e allora chi riesce a sostenere il nostro sguardo, chi ci vuole bene al di là del ruolo, sarà dalla nostra parte. Gli altri continueranno a non capire. Pazienza.
Il rischio è che i sogni si realizzino, dicevo. Gli schemi mentali che seguiamo, le idee che abbiamo di noi stessi soprattutto, ci forniscono una non piccola dose di sicurezza, placano la paura dell’ignoto. Nel momento in cui decidiamo di lasciare andare, ci troviamo di fronte da un lato la paura dell’incertezza e dall’altro il desiderio della novità, dell’avventura. Un bel dilemma per chi pensa di potere tenere tutto sotto controllo!
È necessario lasciare andare, fare morire quella parte di noi che ci ha dato un senso apparente, una struttura temporanea, un valore riconoscibile. Ma per farlo la ferita che dobbiamo infliggere alla nostra costruzione mentale (si direbbe, al nostro ego) è dolorosa.
L’agente immobiliare che si è preparato, ha accumulato moltissima esperienza, e magari tecnicamente è diventato competente e riconosciuto nel suo campo tanto anche da avere una buona entrata economica, per ascoltare il suo cuore senza pregiudizi, deve fare necessariamente morire una parte di sé, ed elaborarne il lutto.
Farà fatica a salutare la sicurezza economica, i ritmi di lavoro che scandiscono la sua giornata, l’amichevole prevedibilità di ciò che gli può accadere, per seguire il suo amore per la musica e la passione che gli fa vibrare l’anima tutte le volte che sale sul palcoscenico, o che insegna ad un ragazzino come muovere le dita sulla chitarra.
Chi si ascolta è presente a se stesso ed è consapevole delle proprie emozioni e dei pensieri, puliti dalle infrastrutture; ha fiducia nell’Universo. Infatti, accogliere senza giudizio ciò che siamo porta necessariamente all’accettazione di sé, delle altre persone e di quello che accadrà con fiducia e gratitudine. Il prezzo da pagare è l’abbandono di ciò che crediamo nostro, per scoprire e abbracciare la nostra reale essenza che ci fa brillare il cuore.
Francesca Malaguti
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