Il teatro come incontro: le maschere
Tecniche di teatro per la crescita personale a cura di Igor Reggiani
“Io inizio da dove tu finisci. Tu incontri le persone nello scenario artificiale del tuo studio, mentre io le incontro per strada e nelle loro case. Tu analizzi i loro sogni, mentre io cerco di dare loro il coraggio di sognare ancora“.
(J. L. Moreno a S. Freud, 1912)
Il teatro nella relazione d’aiuto è per me un pretesto e una metafora: mi permette, infatti, di attivare il come se dello spazio scenico e, nello stesso tempo, dare significato a dinamiche interne altrimenti difficili da decifrare. Il teatro è un pretesto perché serve a svelare: la persona entra in scena pensando di “giocare” a fare un personaggio e si ritrova a personificare se stessa, a mettere in atto le proprie dinamiche relazionali, che conosce solo in parte e delle quali spesso non ha potuto, nella vita, misurare gli effetti. L’uso di tutto il corpo consente di evidenziare il linguaggio non verbale portandolo in superficie, esprimendolo più nettamente, sollecitandolo con stimoli esterni, per favorire la connessione tra vissuto emotivo e azione fisica, voce, parola.
Il teatro è anche un metafora per condividere uno spazio immaginativo in cui ogni persona possiede un “palcoscenico interiore” abitato da “personaggi interni” o “maschere” che discutono, litigano, si nascondono alla vista. Proverò, quindi, a raccontare il processo che avviene in questa integrazione tra tecniche teatrali e gestaltiche.
Le maschere del corpo
Normalmente in ogni incontro c’è una fase di attivazione corporea. L’attenzione sul corpo che ogni partecipante è invitato ad applicare durante gli esercizi, assieme all’osservazione del conduttore, permette di sperimentare un fenomeno importante, cioè il fatto che la nostra quotidianità è popolata reazioni automatiche: piccoli movimenti, modi di fare e di dire, intonazioni della voce, tutte attività di cui spesso non ci rendiamo nemmeno conto tanto sono radicate in noi per abitudine. Alcune di esse sono ormai talmente familiari da essere entrate a far parte della nostra identità, al punto che ci caratterizziamo attraverso di loro. Pensiamo di avere un corpo, ma sarebbe più corretto dire che siamo un corpo, un fragile equilibrio di carne pelle sangue ossa emozioni pensieri gesti che formano una Gestalt unica e originale, che tuttavia resta un po’ appesa alle sue potenzialità e si riduce, nel confronto adattativo con l’ambiente, in comportamenti automatici.
Usando la metafora teatrale, potremmo definire maschere queste espressioni automatiche del corpo, una serie di attitudini che abbiamo cominciato a interpretare molto presto e che ora facciamo fatica ad abbandonare. Una delle mie maschere, per esempio, è quella di sorridere sornione per evitare di essere criticato e spesso, sotto pressione, sento in me la spinta a mettermela, anche se sono cognitivamente consapevole della sua scarsa utilità. Di per sé questo non ha una valenza positiva o negativa: la Natura tende a semplificare, e a farci risparmiare tempo ed energia. Ma se un fenomeno umano si ripete vuol dire che ha uno scopo che, nel caso degli automatismi, è di solito l’autoprotezione o l’ottenimento di un potere maggiore. Nel caso del mio sorriso evitante, se diventa una maschera per ogni occasione, rischia di non farmi abitare le normali situazioni di tensione, di rabbia o di dolore, facendomi perdere momenti importanti della vita. Queste maschere sono innumerevoli e differenti a seconda delle persone e delle circostanze. Può essere l’aggrottare il sopracciglio mentre una persona mi parla, oppure il distogliere continuamente lo sguardo da una conversazione per controllare il telefono.
Dalla reazione automatica all’autenticità
L’educazione che riceviamo è da un lato una risorsa indispensabile per la nostra sopravvivenza nella complessa società umana, ma dall’altro può generare blocchi e difficoltà per la piena realizzazione personale. Per aderire al modello che ci viene trasmesso o imposto, rinunciamo alla nostra vera essenza.
La base del lavoro di Moreno con lo psicodramma è stata proprio il recupero della spontaneità, cioè apprendere come rispondere in modo equilibrato alle sollecitazioni dell’ambiente e attraverso le spinte interne, “istintive”. Questa spontaneità reattiva, tuttavia, va gestita, poiché il rischio è di passare al lato opposto del fiume: da una reattività passiva, controllata e repressa a un’attività egoistica, caotica e potenzialmente dannosa per l’altro. Un’azione è spontaneamente sana se tiene conto di tutte le dimensioni del campo in cui avviene, ovvero se contiene al suo interno l’empatia, la capacità di sentire me, l’altro e l’ambiente circostante. Per fare un esempio, accade nel gruppo che un partecipante, abituato a non esprimere in maniera efficace la sua rabbia (immaginiamo che la reprima e cada in un silenzio rancoroso), si senta finalmente libero di farla uscire senza filtri, arrivando a essere violento con un altro partecipante. Da un punto di vista superficiale si potrebbe definire un’azione spontanea, ma si tratta solamente di una prevaricazione: in questo senso, il bisogno a cui fa riferimento è solamente narcisistico, poiché non tiene conto degli effetti del suo agire. Moreno stesso, dopo le prime esperienze, si rese conto del rischio e rilevò come ognuno dovrebbe imparare ad agire con spontaneità, ma anche con responsabilità. Dal mio punto di vista, nel gruppo ricerchiamo un’azione non per lasciar agire l’emozione in maniera indiscriminata, ma per esprimerla in modo efficace. Questo stato di allineamento tra pensiero, emozione e movimento corporeo, in connessione con il mondo esterno (anzi, in una situazione di tale armonia con esso che quasi è difficile distinguere i confini dei soggetti) è quello che noi chiamiamo autenticità, cioè il nostro “essere noi stessi originali”.